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Un padre, una figlia e un vecchio nodo che si scioglie.
Storia a lieto fine.
“ Mi ricordo ti svegliavi nella notte, ti svegliavi con un salto dentro il letto, mi dicevi ho sognato che cadevo, ho sognato che cadevo per le scale….”
Ricordo perfettamente quella notte, come se fosse adesso. Avevo 5 o forse 6 anni, mi svegliai bruscamente perché avevo sognato di cadere per le scale, un volo nel vuoto percepito come reale e andai di corsa dai miei genitori.
Una storia a lieto fine la mia, che torna a galla oggi grazie ad una sorprendente intervista di qualche mese fa di mio babbo Raoul. La mia storia inizia così: all’età di 3 anni una brutta infezione intacca il mio occhio sinistro e dopo mille visite ed esami scoprono che si tratta di una cheratite erpetica. Praticamente un herpes che nasce all’interno dell’occhio e “mangia” i tessuti fino a provocare un buco nella cornea. Quando vedi quel foro ti accorgi dell’infezione ma a quel punto l’occhio purtroppo è già compromesso. A quei tempi la cheratite erpetica era una malattia piuttosto sconosciuta o almeno non se ne conoscevano i rimedi.
In poche parole ho passato tre anni, dai miei 3 ai miei 6 anni, fuori e dentro l’ospedale. I raschiamenti all’occhio erano continui, praticamente piccoli interventi in anestesia per ripulire l’occhio, dei quali mi ricordo chiaramente alcuni elementi: un faro rotondo pieno di lampadine puntato in faccia, un gruppo di medici in camice e mascherina verde e la mano di mia mamma che stringeva la mia, sempre. Per tante e tante volte, sempre con il sorriso e moltissima dolcezza. Questo lo ricordo bene e mi è rimasto sotto pelle.
Ma la cosa più pesante non era la sala operatoria, quella era niente, lì in fondo dopo un minuto ero anestetizzata. Lo stress psicologico più grande erano le iniezioni che dovevano farmi quasi ogni giorno dentro all’occhio. E non potevano certo farmi altre anestesie totali.
Ogni giorno quella bimbetta di 4 anni stava lì, sdraiata su una poltrona, con l’obbligo di tenere l’occhio spalancato e vedere l’ago della siringa che si avvicinava sempre più fino a pizzicare la cornea.
Non ricordo se sentivo dolore oppure no, ma ricordo chiaramente il peso di quella responsabilità immensa che arrivava puntuale ogni giorno dalla quale non potevo scappare. La responsabilità di una bambina di 4 anni che deve stare immobile con un ago che arriva e mentre l’ago è dentro che rilascia il suo liquido non deve fiatare, nemmeno un respiro, altrimenti addìo occhio. Una responsabilità davvero troppo grande per quei pochi anni. Anni in cui una bimba dovrebbe respirare solo allegria e leggerezza.
Ricordo i miei compleanni all’ospedale, la torta con le candeline sul letto e io che soffio con la benda all’occhio. E i reparti ospedalieri non erano certo quelli di oggi… niente reparti pediatria con i muri colorati, i disegni sulle pareti, aree gioco e clown in corsia. Solo reparti oculistica pieni di anziani che operavano la cataratta. E io.
Io, che mi ero chiusa come un riccio, camminavo sempre a testa bassa e riconoscevo medici e infermieri dalle loro scarpe. Ricordo molti dettagli del periodo trascorso al Sant’Orsola di Bologna anche se in realtà quello determinante è stato all’ospedale di Rimini dove mi hanno guarita e dove c’era un’infermiera che cuciva bellissimi abitini per la mia bambola preferita.
In quegli anni pesanti si è formata una bambina chiusa, schiva, timida, che voleva stare sempre un passo indietro a tutti, sempre nascosta dietro a qualcosa o a qualcuno.
Qualche anno fa sono stata all’ospedale Sant’Orsola con mia sorella per accompagnare mia mamma ad una visita. Mio figlio Manuel in quel momento aveva circa la stessa età che avevo io nel mio periodo di malattia. Camminando per quei corridoi ho pensato alla spensieratezza e all’allegria di mio figlio e con il cuore di una mamma l’ho immaginato lì a vivere quello che ho vissuto io alla sua età, con i camici verdi e l’ago che arrivava ogni giorno puntuale a minacciarmi.
È stato in quel momento che mi sono capita e soprattutto mi sono perdonata. Ho perdonato i miei comportamenti schivi e il mio stile di vita sempre sotto tono. Ho capito che chiunque al mio posto ne sarebbe uscito, come me, così tanto condizionato. Dovevo diventare mamma per capirlo e per sciogliere quel nodo così stretto che mi portavo dentro da 40 anni.
Incredibilmente anche mio babbo quest’anno ha finalmente sciolto quel nodo che non sapevo avesse dentro. Per la prima volta nella mia vita l’ho visto commuoversi.
Questa è l’intervista che mi ha sorpresa e riempita di emozioni.
(grazie a San Marino RTV, Roberto Chiesa e Luana Babini per questo filmato)
Questa è la canzone che mio babbo ha scritto per me in quel periodo, mentre io ero in ospedale e lui era in giro per l’Italia 365 giorni all’anno:
Mia mamma Pina era lì ogni giorno a tenermi la mano, con altri due bimbi piccoli a casa e un marito in giro per l’Italia nel boom del suo successo e quindi del suo impegno e lui doveva stare sul palco da qualche parte a ridere e cantare e arrivava in ospedale da me sempre con un regalino dall’autogrill. E a me bastava.
Non sono mai riuscita a riascoltare questa canzone e scopro solo oggi che nemmeno lui è più riuscito a rileggerne il testo. Ora ne ho riscritto il testo per l’intervista quindi ho dovuto riascoltarla e lui è finalmente riuscito a rileggerla. Lo ha fatto nell’intervista, si è commosso poi si è sfidato ed ha vinto. Abbiamo vinto tutti e due. Ora il cerchio è chiuso e i nodi sono sciolti.
Ecco, ora posso ascoltarla insieme a voi:
Il mio più grande successo personale è stato uscire fuori, mettere sul banco quello che sono e non avere nessuna paura. E quello che sono ora mi piace.
Oggi voglio ringraziare, oltre ai miei genitori, la Dottoressa Patrizia Bertaccini, oculista dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna che oggi si prende cura delle mie sporadiche ricadute e che l’ultima volta mi ha comunicato con gioia che se dovesse ricapitarmi non sono più necessarie le iniezioni oculari. Evviva!!! E anche questo è un capitolo che si chiude.
E ringrazio anche la mia amica Tiziana che negli anni mi ha sempre detto “rompi quel guscio!” e io non volevo capire di cosa stesse parlando.
Infine una frase che mi ha sempre colpita molto:
“Ogni persona che incontri
sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla.
Sii gentile sempre”
(Platone)